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U
n'è mai senza un brisul d'ambizion
che
me a pens a chi dè, a che tinël
dla
casina suleda, e cal riunion
di
pariínt
torna ló,
tott j ann d'Nadêl;
e
quand, dal võlti,
me a s'era un burdel
e'
cunteva ad chi timp e dla person
dla
su cundana a morta che a scultêl
t'a
t'sintiva int' e' sangv cmà un buliron.
Ancora
u m' pê
d'avdél: la berba bienca;
u
m'pé ad sintì cla su parola frenca
int'
j occ sempar un vel d'malinconia.
Anma
temprêda
a fugh, innamurêda
dla
su tëra
ch'la n'trema e dla su feda
ch'la
s' taglia al veni par no fê
la spia!
Pietro
Comandini
LO
ZIO FEDERICO. (Comandini) – Non è mai senza un poco di ambizione –
che io penso a quei giorni, a quel tinello – della casetta assolata
e a quelle riunioni – dei parenti intorno a lui, tutti gli anni di
Natale, - e quando, alle volte, io ero un bambino, raccontava di quei
tempi e della prigione, - della sua condanna a morte , che ad
ascoltarlo – ti sentivi nel sangue come un rimescolio. - Ancora mi
pare di vederlo. La barba bianca; mi pare di d'ascoltare quella sua
parola franca – negli occhi sempre un velo d'i malinconia. -Anima
temprata al fuoco, innamorato- della sua terra che non trema e della
sua fede – che si taglia le vene per non fare la spia (tentò di
tagliarsi le arterie ai polsi ed all'inguine in carcere con i cocci
di un bicchiere rotto per la paura di fare delle rivelazioni sotto il
dolore della tortura).
Ma chi era zi Federico di
cui parla il nonno Pierino? Cosa poteva raccontare nelle veglie di
Natale con tutti i parenti avanti al caminetto nel tinello della
piccola casa di Cesena? Racconti che facevano rimescolare il sangue
del nonno, autore di questa poesia, allora ancora un semplice
“burdello” (ragazzino)?
Zi Federico era uno dei
sei fratelli di Giacomo Comandini padre di Pierino. Nel 1853 venne da
Mazzini l'ordine ai patrioti romagnoli di tenersi pronti, ma il moto
iniziato il 6 febbraio a Milano, fu spietatamente represso con
ventiquattro impiccati in Lombardia, tre fucilati a Ferrara ed
arresti a non finire nel Lombardo-veneto, nelle Legazioni e nelle
Marche. Tra questi c'era anche lo zio Federico arrestato a Faenza il
18 luglio dagli austriaci nonostante il tentativo di fuga sui tetti
di una casa accanto.
Da quel momento non vide
più la moglie ed il figlioletto e, trasferito a Bologna in catene,
non tornò a casa se non il 23 giugno del 1865 dopo dodici anni.
Accusato di “ripristino di società segreta e di promossa
insurrezione” nonostante le torture, non parlò negando ogni
cospirazione. Durante l'interrogatorio durato diversi giorni, nel
timore di non potere resistere alle torture, tentò di uccidersi
tagliandosi le vene con i vetri di un bicchiere rotto, ma un medico
militare fece in tempo a salvarlo. Il 18 gennaio del 1855 fu
condannato con altri 37 compagni per alto tradimento alla “pena di
morte con la forca” con commutazione alla pena in sei anni di
prigione “in ferri” .
Dopo essere stato
rinchiuso in diverse carceri venne inviato al carcere di Paliano
(Castello ancora oggi adibito a carcere modello per i pentiti) dove
rimase più di dieci anni. Doveva scontare sei anni, ma a causa della
partecipazione ad un ammutinamento e tentativo di fuga fu di nuovo
condannato prendendosi una seconda condanna a morte, (commutata dal
Papa in galera in vita con obbligo di custodia l'11 gennaio, il
giorno dopo che Vittorio Emanuele aveva pronunciato il discorso del
“grido di dolore”.
Dopo la guerra vittoriosa
di Magenta e Solferino le Romagne si staccarono dallo Stato della
Chiesa e furono riunite al Piemonte, ma i prigionieri politici dello
Stato della Chiesa non furono però liberati. Nel 1964 venne concessa
la possibilità di liberazione purché il prigioniero firmasse una
semplice domanda di Grazia al Pontefice, ma Federico si rifiutò
perché, piuttosto che firmare, preferiva morire in carcere. Solo nel
23 giugno 1865 uscì di prigione senza firmare alcuna domanda di
Grazia.
Pesaro li 16 giugno 2011
Paolo Emilio Comandini
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