A otto anni per la prima
volta ho incontrato “l'emigrante” leggendo un libro di Anna
Perodi che narrava la storia di “Bernoccolino”, un ragazzetto
figlio di due siciliani emigrati in America. Rimasto orfano,
Bernoccolino deve tornare in Italia, a Palermo, dalla sua vecchia e
povera nonna che abitava in un “castro” (una specie di bottega a
pian terreno, senza finestre, che prende aria dalla porta e che
corrisponde al “basso” napoletano) sito nella parte più
degradata di Palermo. Qui si trova a sopravvivere in un ambiente di
pescatori inquinato dalla delinquenza e dalla povertà.
Il secondo incontro con
l'emigrante, molti anni dopo, in Urbania dove mi trovavo per ragioni
professionali. Avendo alcune ore libere mi misi alla scoperta del
fiume, il Metauro, che, provenendo da Barco scorre ai piedi del
Palazzo Ducale. Era una mattinata chiara e serena che illuminava il
greto del fiume dove l'acqua scorreva limpidissima lungo le sponde
ricoperte di erbe e di fiori in una cornice di alberi che non
nascondevano la facciata del castello illuminata dal sole. Sembrava
di essere tornati indietro ai tempi della Gerusalemme Liberata di
Ludovico Ariosto o di vedere le “chiare, fresche dolci acque” del
Petrarca. In quel paesaggio incantato, dopo un'ansa del fiume, vidi
un uomo intento a pescare con la sua canna. Che bello avere la
possibilità di venire al fiume a pescare in quel paradiso.
“Fortunato lei che se
ne può stare qui tranquillamente a pescare in questo bel posto!”
dissi al pescatore, attaccando il discorso. Parlando, venivo a sapere
che era un ex minatore tornato in Italia dal Belgio con la silicosi.
Dopo tanti anni di miniera, quando i polmoni avevano raggiunto un
certo punto di saturazione i minatori venivano, tutti, mandati in
pensione, presto, perchè tutti avevano da vivere certamente dieci
anni di meno. Fu come mi avessero dato un pugno nello stomaco.
Qualche anno prima di
questo episodio mi trovai a trascorrere una notte, sdraiato su di una
panca, alla stazione di Basilea. Nonostante avessi un cappotto bello
pesante sentivo un gran freddo (quell'anno il lago di Costanza gelò
completamente): Al primo albeggiare una svizzerona cominciò a fare
le pulizie, aprendo le porte e facendo entrare una corrente gelida.
Quando mi alzai per richiuderla mi sentii apostrofare in malo modo in
tedesco. Allora mi mi sentii un povero emigrante maltrattato ed
abbandonato in un paese straniero.
Nel Pullman che portava
un gruppo di avvocati italiani in gita da Boston alle cascate del
Niagara c'era, come guida, una signora italiana che parlava un
italiano con espressioni ed accento abruzzese che, in America, ci
appariva si famigliare, ma anche un po' comico. La guida ci raccontò
che lei con i suoi tre fratelli erano tutti emigrati in America. Il
primo era stato suo padre che aveva trovato un buon lavoro che gli
permetteva di mandare i soldi a casa. Quando il primo figlio maschio
aveva raggiunto l'età e voleva partire militare in Africa per una
delle guerre del Duce, la madre, non potendo distogliere il figlio da
tale proposito disse al figlio: “..vabbè figliu mio, vai. però,
prima di partire, va a trovare tuo padre per salutarlo, al ritorno
poi farai tu!”
Dopo un po' di tempo il
figlio scriveva alla madre dicendo che in America c'erano le
automobili, c'era il lavoro e tante altre meraviglie per cui riteneva
meglio rimanere lì piuttosto che andare in Abissinia. La stessa cosa
fece la madre con gli altri “figli della lupa”. Piano piano tutti
si trasferivano in America. Lei, allora, si trovava a fare
occasionalmente da guida per turisti italiani e l'interprete. Era
tornata recentemente al suo paese in Italia, dopo tanti anni, ma,
nonostante i cambiamenti avvenuti, non avrebbe più voluto tornarci.
Aveva avuto uno scontro con la burocrazia italiana che l'aveva
scioccata non poco. Era rimasta italiana nel cuore, nella lingua ma
era fiera di essere Americana. “I am american” diceva con
orgoglio, come in altri tempi avrebbe detto: “civis romanus sum”!
Si vuole dare la
cittadinanza ai nostri immigrati solo perchè residenti da cinque
anni. Il tempo è un requisito relativo: può essere troppo poco o
troppo. La cittadinanza andrebbe data solo quando chi la chiede,
sinceramente può dire con orgoglio “sono cittadino italiano”. Il
problema è quello di fare in modo che tutti gli aspiranti dimostrino
di essere degni ed orgogliosi del paese che li ospita, e che non
siano come quegli “italiani di nascita” che in nome di una falsa
e stupida “multietnicità” sono pronti ad abiurare alla propria
cultura, alle proprie tradizioni, alla propria religione e quindi
alla propria identità.
Pesaro li 14 gennaio 2007.
Paolo Emilio Comandini
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