venerdì 21 novembre 2014

EMIGRANTI ED IMMIGRATI



A otto anni per la prima volta ho incontrato “l'emigrante” leggendo un libro di Anna Perodi che narrava la storia di “Bernoccolino”, un ragazzetto figlio di due siciliani emigrati in America. Rimasto orfano, Bernoccolino deve tornare in Italia, a Palermo, dalla sua vecchia e povera nonna che abitava in un “castro” (una specie di bottega a pian terreno, senza finestre, che prende aria dalla porta e che corrisponde al “basso” napoletano) sito nella parte più degradata di Palermo. Qui si trova a sopravvivere in un ambiente di pescatori inquinato dalla delinquenza e dalla povertà.
Il secondo incontro con l'emigrante, molti anni dopo, in Urbania dove mi trovavo per ragioni professionali. Avendo alcune ore libere mi misi alla scoperta del fiume, il Metauro, che, provenendo da Barco scorre ai piedi del Palazzo Ducale. Era una mattinata chiara e serena che illuminava il greto del fiume dove l'acqua scorreva limpidissima lungo le sponde ricoperte di erbe e di fiori in una cornice di alberi che non nascondevano la facciata del castello illuminata dal sole. Sembrava di essere tornati indietro ai tempi della Gerusalemme Liberata di Ludovico Ariosto o di vedere le “chiare, fresche dolci acque” del Petrarca. In quel paesaggio incantato, dopo un'ansa del fiume, vidi un uomo intento a pescare con la sua canna. Che bello avere la possibilità di venire al fiume a pescare in quel paradiso.
Fortunato lei che se ne può stare qui tranquillamente a pescare in questo bel posto!” dissi al pescatore, attaccando il discorso. Parlando, venivo a sapere che era un ex minatore tornato in Italia dal Belgio con la silicosi. Dopo tanti anni di miniera, quando i polmoni avevano raggiunto un certo punto di saturazione i minatori venivano, tutti, mandati in pensione, presto, perchè tutti avevano da vivere certamente dieci anni di meno. Fu come mi avessero dato un pugno nello stomaco.
Qualche anno prima di questo episodio mi trovai a trascorrere una notte, sdraiato su di una panca, alla stazione di Basilea. Nonostante avessi un cappotto bello pesante sentivo un gran freddo (quell'anno il lago di Costanza gelò completamente): Al primo albeggiare una svizzerona cominciò a fare le pulizie, aprendo le porte e facendo entrare una corrente gelida. Quando mi alzai per richiuderla mi sentii apostrofare in malo modo in tedesco. Allora mi mi sentii un povero emigrante maltrattato ed abbandonato in un paese straniero.
Nel Pullman che portava un gruppo di avvocati italiani in gita da Boston alle cascate del Niagara c'era, come guida, una signora italiana che parlava un italiano con espressioni ed accento abruzzese che, in America, ci appariva si famigliare, ma anche un po' comico. La guida ci raccontò che lei con i suoi tre fratelli erano tutti emigrati in America. Il primo era stato suo padre che aveva trovato un buon lavoro che gli permetteva di mandare i soldi a casa. Quando il primo figlio maschio aveva raggiunto l'età e voleva partire militare in Africa per una delle guerre del Duce, la madre, non potendo distogliere il figlio da tale proposito disse al figlio: “..vabbè figliu mio, vai. però, prima di partire, va a trovare tuo padre per salutarlo, al ritorno poi farai tu!”
Dopo un po' di tempo il figlio scriveva alla madre dicendo che in America c'erano le automobili, c'era il lavoro e tante altre meraviglie per cui riteneva meglio rimanere lì piuttosto che andare in Abissinia. La stessa cosa fece la madre con gli altri “figli della lupa”. Piano piano tutti si trasferivano in America. Lei, allora, si trovava a fare occasionalmente da guida per turisti italiani e l'interprete. Era tornata recentemente al suo paese in Italia, dopo tanti anni, ma, nonostante i cambiamenti avvenuti, non avrebbe più voluto tornarci. Aveva avuto uno scontro con la burocrazia italiana che l'aveva scioccata non poco. Era rimasta italiana nel cuore, nella lingua ma era fiera di essere Americana. “I am american” diceva con orgoglio, come in altri tempi avrebbe detto: “civis romanus sum”!
Si vuole dare la cittadinanza ai nostri immigrati solo perchè residenti da cinque anni. Il tempo è un requisito relativo: può essere troppo poco o troppo. La cittadinanza andrebbe data solo quando chi la chiede, sinceramente può dire con orgoglio “sono cittadino italiano”. Il problema è quello di fare in modo che tutti gli aspiranti dimostrino di essere degni ed orgogliosi del paese che li ospita, e che non siano come quegli “italiani di nascita” che in nome di una falsa e stupida “multietnicità” sono pronti ad abiurare alla propria cultura, alle proprie tradizioni, alla propria religione e quindi alla propria identità.

Pesaro li 14 gennaio 2007.



Paolo Emilio Comandini

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